La febbre del sabato sera non era un musical, ma un complesso film con musiche. Mai come in questo caso è stato difficile affrontare un copione così multiforme.
La forza e l’universalità delle musiche che accompagnavano lo svolgimento della storia del giovane italo-americano mattatore delle piste da ballo di Brooklyn, hanno fatto sì che oggi sembri naturale chiamarlo musical.
Le voci soavi e incisive dei tre fratelli Gibb, ovvero i Bee Gees, hanno sovrastato nei decenni successivi la forza e il ricordo di quel film. Insieme con loro l’allora giovane e sconosciuto John Travolta, disinvolto e sensuale, vigoroso e molleggiato, nel completo bianco con collettone a punta di seta nera in bella evidenza; un nome, Tony Manero, iscritto ormai nel mito tra Mosè e Al Pacino; una firma, il suo dito puntato verso l’alto eguagliata forse solo dalla Z di Zorro.

E’ il 1976, ma potrebbe essere qualunque anno in cui avevamo 20 anni. Siamo a New York, ma non a Manhattan, siamo al di qua del ponte, a Bay Ridge, un sobborgo di Brooklyn che è un sobborgo di New York City.
E tra candidi sorrisi, balli sfrenati, baci sensuali, musiche intramontabili, si parla di disagio giovanile, di tristi famiglie di emigrati in cui nulla più resta da dirsi, di figli diventati preti per desiderio di gloria dei genitori, di voglia di riscatto, di emarginazione, di conflitti razziali, di sfruttamento sul lavoro, di amori delusi e di fatue ascese sociali.
Ma soprattutto si parla di sogni. Poco importa se ad occhi aperti o chiusi. Comunque sogni. E i bei sogni stanno sempre al di là di un ponte. E per passare dall’altra parte bisogna proprio mettercela tutta e credere davvero in qualcosa.
Tony Manero supera il suo ponte il sabato sera quando la pista da ballo fa di lui un vero Re. Qualcuno dei suoi amici ci lascia la vita su quello stesso ponte. Qualcun altro s’illude che per passare quel ponte sia sufficiente crearsi dei paradisi virtuali. Altri ancora si accontentano di rimanere al di qua di quel ponte perché magari una triste normalità può valere più di un faticoso riscatto.
E’ con la lucidità del sognatore che andrebbe visto questo spettacolo.
Del resto, chi ricorda La febbre del sabato sera come una storia triste? Chi non rimarrebbe ore ed ore a farsi cullare e accarezzare dalle sue melodie o a farsi scuotere dai suoi ritmi frenetici? Chi non rimarrebbe incantato dal fascino di quel ragazzo di borgata la cui vita, apparentemente segnata dal destino, viene poi sublimata dai suoi stessi sogni?
Ecco cos’è La febbre del sabato sera: una passeggiata al di là di un ponte.

Il protagonista è Sebastien Torkia italo-inglese (ma con madre francese) che da anni porta La Febbre in giro per l’Europa con grande successo, ben oltre 1100 repliche tra Inghilterra, Germania e Italia. Accanto a lui Silvia Specchio, nei panni della fredda e malinconica Stephany Mangano, e Francesca Taverni nel ruolo di Annette.

Tra gli altri, l’istrionico Bob Simon, l’immorale Dj Monty che manovra il gioco.

Il musical, con le coreografie di Jaime Rogers, di lui si ricordano le cororeografie del famoso serial tv Fame-Saranno Famosi, è recitato in Italiano, mentre i testi delle magnifiche canzoni dei Bee Jees sono lasciate in inglese come le sonorità tipiche di quei tempi restituite dall’impeccabile falsetto stile Bee Gees di Paride Acacia, Francesco Regina e Massimiliano Giusto.