Nel ruolo del titolo Olivia Cinquemani, affiancata da Bob Simon (famoso per il suo Frank’ n’ Furter in Rocky Horror Picture Show e Dj Monty nella Febbre del Sabato Sera), nei panni di “Che” Guevara, contraltare critico di Nostra Signora dei Descamisados.
Note di regia
Evita è un nome che ha superato la propria storia. Il mito che Eva Duarte de Peron rappresentanon è neppure paragonabile alla sua stessa vita. E il fascino è immenso. Una morte prematura comunque lascia un sospetto. Ancor più quando ad andarsene sono persone che nell’immaginario collettivo alimentano speranze. Allora la necessità di rendere immortale la speranza cresce a dismisura. Non si accetta facilmente l’idea che delusa una speranza se ne coltivi una nuova, e poi ancora una, fino a quando non se ne ha più la forza.
Occuparsi di Evita significa occuparsi dell’immortalità di uno dei tanti miti che la Storia ci consegna con tutte le contraddizioni, ombre e misteri che ne costituiscono l’essenza stessa. Il rischio, però, che la storia ci prenda per mano e ci porti lungo i rigidi binari di un’analisi di tipo didattico e forte. Allora interviene il Teatro in soccorso. Non serve ricostruire l’Argentina degli anni 40/50, è sufficiente il suo sapore; non serve stabilire se Evita fosse Santa o “puta”, è più utile il dubbio; non importa vederla morire, ma capire come per alcuni ancora vive.
E poi questa “Evita” è una grande Opera musicale. E come tale, comunque, conserva un fascino proprio. E’ la splendida musica a volte a dare, sola, il senso ora drammatico ora magico della vicenda. Insieme, un libretto. Azzardato come azzardate sono le opere del suo autore: come in “Jesus Christ Superstar” il mito di Cristo era visto attraverso la lente critica dell’antieroe Giuda, così come il mito di Evita vive nel racconto di un uomo che è diventato mito senza volerlo, quell’Ernesto “Che” Guevara il cui volto stereotipato è mille e mille volte riprodotto ovunque dalle T-shirt alle tazze per il latte, quasi fosse un fuoriclasse del pallone o un divo del grande schermo.
Nonostante la storia voglia che Evita e “Che” Guevara, pure entrambi argentini di nascita e quasi contemporanei, non si incontrino mai, nell’Opera teatrale il gioco di fondo è quasi questo.
Non serve interrogarsi sul significato storico-politico del non-incontro/scontro tra il “Che” ed Evita. Piuttosto è un confronto a distanza tra parola/filosofia e corpo/storia che non si incontrano pur guardandosi negli occhi.
Basta un’istantanea, è un attimo, lo spazio di un flash, e tutto può diventare eterno, non immortale. Una foto può consegnare per sempre agli altri la nostra immagine: per le idee ci vuole ben altro.
In quest’Opera il confronto/scontro è proprio tra immagine e idee: Evita e “Che” Guevara s’inseguono senza mai incontrarsi come da sempre s’inseguono senso del concreto e dell’immediato e ricerca del sublime e dell’utopia, nazionalismo e internazionalismo. La vita di Eva Duarte è tutta inscritta nel perimetro di uno schermo. Essere in mostra sempre e in ogni occasione era il suo imperativo; il popolo, il suo popolo, la voleva così. La radio, il Teatro, lo scintillio delle luci, il cinema, il guardaroba da capogiro, i gioielli scintillanti, il maquillage e le acconciature, le esibizioni al balcone, il gesto calibrato sempre uguale, tutto doveva rispondere a un clichè consolidato nel suo immaginario e in quello della gente che ancora oggi ne venera l’immagine. Il contraltare di tutta questa grandiosità non poteva che essere l’essenzialità e la crudezza di un personaggio come “Che” Guevara che in questa personale visione che il Teatro mi permette, usa le armi più innocue per sfatare il mito dal contorno effimero. Come le bolle di sapone: belle a vedersi, basta un soffio perché svaniscano.
Insomma, è un gioco. Un simpaticissimo gioco teatrale che come tutti i giochi conserva un grande valore conoscitivo, costruttivo, emozionale, come costruttiva ed emozionale dovrebbe essere ogni contestazione. Perché spesso anche il più semplice dei giochi emoziona e coinvolge più di tanta triste squallida storia.